Approfondimento

“Biden ha ripreso vigore, ma Trump ha buone possibilità”

Intervista a 360 gradi con il Professor Zanecchia, della Franklin University di Sorengo: campagne elettorali, economia e politica estera – “La questione israelo-palestinese peserà”

  • 19 aprile, 06:05
  • 19 aprile, 11:23
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IMAGO / Bihlmayerfotografie

  • A distanza di quattro anni, la sfida si ripropone tale e quale
Di: Dario Lanfranconi

Chi la spunterà alla fine tra Joe Biden e Donald Trump e come stanno procedendo le rispettive campagne? Perché nonostante l’economia statunitense vada a gonfie vele, almeno secondo gli indicatori, i cittadini non sembrano accorgersene? E quanto pesa la politica estera e il sostegno ebraico in un’elezione presidenziale?

Sono alcune tra le principali domande che aleggiano in vista delle elezioni presidenziali USA del prossimo novembre, in cui è ormai quasi certo che a sfidarsi saranno ancora Biden e Trump. Noi per vederci più chiaro ne abbiamo parlato con il Professor Armando Zanecchia della Franklin University Switzerland di Sorengo. Zanecchia, in Ticino da 26 anni, è professore di scienze politiche e di international management. Si occupa anche di politica ambientale di sviluppo economico sostenibile e basato sulla comunità sia nel Nord che nel Sud del mondo. Ha svolto attività di studio e consulenza in Europa, America centrale, Africa meridionale e Asia e ha condotto ricerche e formazione nelle ex Repubbliche Sovietiche e in Nepal. Dal 2021 gli è stato assegnato il titolo di Professore Emerito e continua ad insegnare.

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Il Professore Armando Zanecchia

  • Franklin University Switzerland

Professor Zanecchia, partiamo da un giudizio generale: come valuta fin qui le campagne elettorali e le nomination ormai pressoché certe di Biden e Trump?

“Penso che, per quanto riguarda la campagna dei Democratici, Biden stia cercando di trasmettere il messaggio dell’esperienza di un politico navigato. È stato al Senato degli Stati Uniti per oltre 30 anni, ha fatto otto anni come vicepresidente con Barack Obama e quattro anni come presidente. Quindi penso che stia cercando di trasmettere un messaggio di unità, in qualche modo contrapponendosi alle divisioni e al relativo caos dell’ultima amministrazione Trump. Per quanto riguarda la sua campagna elettorale, sta enfatizzando i temi tipici della tradizione democratica: l’assistenza sanitaria, la ripresa economica, lo sviluppo delle infrastrutture. Ha il sostegno dei grandi sindacati e vuole rafforzare l’alleanza atlantica, in particolare la NATO. E di recente ha incluso anche il suo “ferreo” sostegno a Israele, la mitigazione del cambiamento climatico e la giustizia razziale. Non è stato certamente perfetto in termini di approccio a questi elementi essenziali, ma sta cercando di trasmettere questo messaggio nella sua campagna, facendo appello a un’ampia coalizione di elettori, tra cui progressisti e moderati e repubblicani disaffezionati che ne hanno abbastanza di Trump. Biden ha però dovuto affrontare parecchie critiche per il profilo basso tenuto nelle prime fasi della sua campagna, oltre alle inevitabili domande sulla sua età e ai dubbi sulla sua resistenza, la sua competenza mentale e le sue vulnerabilità. Va detto che recentemente, anche e soprattutto con il discorso sullo stato dell’Unione tenuto il mese scorso, ha mostrato un nuovo vigore e un rinnovato entusiasmo. Tanto che Fox News, da sempre uno dei maggiori canali a sostegno dei repubblicani, da Sleepy Joe (Joe l’addormentato) l’ha ribattezzato Jacked up Joe (Joe il mattacchione). Quindi, nella misura in cui Biden riuscirà a soddisfare la sua tradizionale base di sostenitori, gli elettori preoccupati per il clima, i diritti civili, i diritti all’aborto, il controllo delle armi, … sarà un fattore importante per la campagna. A questo si aggiunge il fatto che i Democratici hanno un vantaggio storico con gli afroamericani, con i latini, con gli elettori asiatici e ora con gli arabi, che stanno diventando un elemento sempre più importante. Ma il panorama sta cambiando su più fronti, stiamo anche assistendo alla crescita di afroamericani conservatori che stanno passando a Trump”. 

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E che dire guardando proprio a Trump?

“Trump continua a sottolineare il suo populismo di “Make America Great Again”, conosciuto con l’acronimo MAGA. È un outsider politico che lotta contro l’establishment, ma porta avanti anche i suoi temi di Law&order, legge e ordine, con la riforma dell’immigrazione e le sue implicazioni, tra cui la costruzione del muro e la chiusura dell’immigrazione legata a vari gruppi elettorali. Sicurezza nazionale, patriottismo, America first: c’è tutto un programma che si rispecchia con Make America Great Again. E sta anche cercando di “accendere” la base dei suoi sostenitori, in particolare gli elettori degli Swing State, gli Stati chiave in bilico, quelli che possono decidere l’elezione. Secondo i sondaggi sono principalmente sei: Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin. Quindi, se Trump riuscirà a mantenere la posizione di vantaggio nei sondaggi – attualmente attestata in quattro dei sei Stati in bilico –, ma anche in altri come la Carolina del Nord e l’Ohio, allora sì, potrebbe vincere le elezioni, ma senza dimenticare che mancano ancora sette mesi in cui possono succedere molte cose, in particolare in relazione alle vicissitudini legali di Trump e in quello che sta accadendo a New York proprio mentre parliamo, in termini di selezione della giuria e di come andrà a finire il primo processo penale a cui è sottoposto. Ci sono poi parecchi elettori democratici che potrebbero non votare del tutto a causa del sostegno a Israele di Biden, non solo gli elettori arabo-americani, ma anche molti americani con un profilo di voto tradizionale. Resta poi da valutare anche l’impatto della campagna di Robert F. Kennedy Jr.: sarà una variabile interessante e se riuscirà ad essere presente in un numero sufficiente di schede elettorali statali, questo potrà avere un impatto negativo sulla base democratica di Biden, anche se RFK è in corsa come indipendente. Ma è sicuramente un candidato valido. Vedremo come andrà a finire, perché ha il fascino dei Kennedy e il loro nome, ma la sua piattaforma politica non fa parte del partito democratico tradizionale, in nessun modo. Detto che Trump vincerà la nomination repubblicana, su questo non ci sono dubbi, finché manterrà l’unità del partito, avrà la voce di Fox News accompagnata dal suo uso piuttosto efficace dei social media e dalla sua capacità di connettersi con gli elettori attraverso i raduni MAGA, è in una posizione forte per vincere. Questo è il punto fondamentale, ma vedremo come andrà a finire”.

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Dal punto di vista economico, gli USA sembrano andare piuttosto bene (bassa disoccupazione e buona crescita), eppure nell’opinione pubblica la buona performance sotto l’amministrazione Biden sembra passare in secondo piano: come se lo spiega?

“Un fattore chiave è certamente il pregiudizio di parte, partigiano. E l’America è più che mai divisa: anche se l’economia ha un andamento oggettivo positivo, gli individui possono quindi percepirlo in modo diverso in base alle loro convinzioni politiche. I sostenitori del partito avversario possono infatti sminuire o ignorare gli indicatori economici positivi di un presidente a loro avverso. Ma anche altre questioni come la politica estera, con la guerra in Ucraina e a Gaza, così come le controversie politiche, tendono a dominare il ciclo delle notizie e l’attenzione degli elettori, mettendo in ombra le notizie economiche positive. C’è poi la questione della percezione rispetto alla realtà: gli indicatori economici come la disoccupazione e la crescita del PIL sono importanti, ma potrebbero non cogliere appieno le esperienze economiche di tutti gli americani, confrontati con l’inflazione e la stagnazione dei salari. C’è infine da dire che la strategia di comunicazione e i messaggi dell’amministrazione Biden sull’economia spesso non raggiungono efficacemente il pubblico, non riesce a trasmettere i risultati ottenuti nella misura in cui potrebbe farlo”.

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Ma quali sono, molto concretamente, i veri problemi degli americani in questo momento?

“In cima alla lista metterei l’assistenza sanitaria, i suoi costi e la sua accessibilità. Non c’è infatti un livello di reddito pari a quello in Svizzera nella base della popolazione degli Stati Uniti. Quindi, per la maggior parte delle persone, nonostante abbiamo Medicare e il sostegno pubblico a varie soglie di reddito, i costi dell’assistenza sanitaria sono davvero importanti e più aumentano i premi più si deve pagare per l’esistente, andando a erodere il potere d’acquisto reale. Il risultato è che la gente dice: “Ok, non posso permettermi la tariffa mensile, quindi aumenterò la mia franchigia”, un concetto che conosciamo bene anche in Svizzera. Ma in questo modo le spese vive per curarsi aumentano e così l’onere finanziario per le famiglie. Ovviamente pesano anche il cambiamento climatico e le preoccupazioni ambientali, in quanto le persone sono sempre più sensibili. L’impatto del cambiamento climatico è molto concreto, così come l’impatto degli eventi meteorologici e delle condizioni climatiche estreme, che richiedono una preparazione alle catastrofi andando a sottrarre denaro alle sovvenzioni per l’assistenza sanitaria, ad esempio. D’altra parte non stiamo investendo in un’economia che sia in grado di garantire la sicurezza e la salute dei cittadini, non stiamo investendo nel trasporto pubblico di massa che tanto apprezziamo qui in Svizzera. Le preoccupazioni per la transizione verso un futuro sostenibile include anche cibo di qualità, una maggiore consapevolezza di come e dove viene coltivato e di come trattiamo gli animali. Sono problemi reali ed è per questo che Biden ha capito che deve affrontare la questione. Trump, invece, pensa che sia tutto una bufala. Ci sono poi i problemi più “classici”, ma non meno importanti: la disoccupazione e la sottoccupazione, la stagnazione dei salari, l’aumento del costo della vita, i problemi di accessibilità abitativa, in particolare per gli affittuari nelle grandi aree metropolitane, il costo del carburante nelle zone rurali e le disparità di ricchezza e di reddito. Il reddito reale, ovvero il reddito al netto dell’inflazione, è il dato fondamentale. Senza poi dimenticare anche le questioni legate all’ingiustizia razziale, al razzismo sistemico e all’equità sociale, che continuano a essere una preoccupazione importante per molti americani. Infine pesano anche le richieste di riforma della polizia, della giustizia penale e gli sforzi per affrontare le disparità nell’istruzione”.

Biden ha spinto l’economia con stimoli fiscali e importanti interventi pubblici, come le centinaia di miliardi previsti per il Green new deal. Al contempo ha però fatto crescere notevolmente il debito pubblico. Come giudica queste scelte?

“Faccio un salto indietro storico alla Grande Depressione e al crollo di Wall Street del 1929, quando negli Stati Uniti c’era una disoccupazione del 25% e una persona su quattro in una mensa per i poveri o in fila per il pane. All’epoca c’era un economista, John Maynard Keynes, che scrisse un libro intitolato Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. La sua ricetta era quella di stimolare la domanda aggregata. Le misure di stimolo fiscale possono infatti contribuire a sostenere i singoli, le imprese e l’economia in generale. Iniettando fondi nell’economia attraverso misure come i pagamenti diretti, l’aumento dei sussidi di disoccupazione e il sostegno alle piccole imprese, il governo mira quindi a stimolare la spesa, ad aumentare la fiducia dei consumatori e a mitigare l’impatto delle crisi economiche. È quanto abbiamo osservato anche durante la crisi legata al Covid-19. Il governo, in sostanza, attraverso la spesa in deficit, cerca di aumentare la spesa aumentando la produttività, creando posti di lavoro e sostenendo la crescita economica. . E se si guarda al prodotto interno lordo, due terzi di esso, in generale nelle economie industriali, non solo negli Stati Uniti, ma nella maggior parte del mondo industriale, è più o meno direttamente collegato ai consumi delle famiglie. E almeno a livello ideale, nell’attuale del Green New Deal di Biden e in altre forme di investimenti infrastrutturali, si possono affrontare anche le sfide ambientali. Il rovescio della medaglia è che abbiamo finanziato tutto questo attraverso il deficit. E in passato abbiamo assistito a situazioni in cui se i Paesi stampano troppo denaro, la moneta diventa priva di valore e si va in iperinflazione. Non credo che gli Stati Uniti corrano attualmente questo rischio ma, per far capire, mi ricordo quando ero in Ucraina all’inizio degli anni ‘90 e il Paese aveva un’inflazione del 30’000% all’anno e quindi il rublo non valeva nulla: tutti usavano il baratto e la vodka divenne uno dei principali mezzi di scambio. Tornando a Keynes, quando gli fu chiesto: “Stiamo spendendo in deficit solo per finanziare la domanda aggregata e i consumi?”. Lui rispose: “Beh, nel lungo periodo saremo tutti morti, quindi concentriamoci sul presente e facciamo quello che dobbiamo fare ora”. Un’affermazione certamente particolare, ma bisogna ammettere che ad esempio il New Deal di Franklin Delano Roosvelt e il National Recovery Act, imperniati sulla teoria keynesiana, hanno prodotto ottimi risultati e hanno portato benefici positivi anche a lungo termine: investimenti pubblici nell’energia, la Tennessee Valley Authority, il sistema dei parchi nazionali, le dighe idroelettriche, le autostrade nel New England e la costruzione di moltissimi edifici pubblici. Credo quindi che la domanda finale che dobbiamo porci è: qual è l’impatto sul dollaro? Abbiamo già visto che una sua svalutazione ha sia effetti positivi sia negativi. La cattiva notizia è che servono più dollari per acquistare beni all’estero, come hanno sperimentato molti dei nostri studenti qui dovendo acquistare franchi svizzeri. La buona notizia è che i beni americani diventano più competitivi a livello globale, attirando così investimenti stranieri negli Stati Uniti. In conclusione credo quindi che i politici debbano soppesare i costi e i benefici e trovare i giusti equilibri, sempre considerando le condizioni economiche, le esigenze sociali, le priorità politiche e la capacità del governo di contrarre e rimborsare il debito”.

Con un’elezione di Trump si tornerebbe invece a una guerra commerciale più pronunciata con la Cina e forse anche con l’Europa? E sarebbero da prevedere anche nuovi importanti tagli fiscali?

“La premessa che va fatta è che Trump è imprevedibile, quindi posso solo guardare a quanto ha fatto in passato ed estrapolare, sulla base di questo, a cosa potrebbe portare nel 2025 in caso di una sua elezione. Trump ha perseguito una politica più protezionistica, in particolare colpendo la Cina con tariffe doganali a causa di pratiche commerciali ritenute scorrette. Ha anche avuto dispute commerciali con l’Europa su acciaio e alluminio. Quindi credo che Trump continuerà ad assumere una posizione dura sul commercio, con un possibile inasprimento delle tensioni commerciali con la Cina e l’Europa. Il tempo ce lo dirà, ma se rivisiterà la “costruzione del muro” non solo in senso letterale per i migranti, ma anche in senso metaforico in riferimento al protezionismo, allora penso che dobbiamo stare all’erta per quanto riguarda i tagli alle tasse. Anche in questo caso lo sguardo è rivolto al passato: Trump nel 2017 ha attuato significativi tagli fiscali attraverso il Tax Cuts and Jobs Act, che ha ridotto le aliquote d’imposta sulle società, quelle individuali e ha apportato altre modifiche al codice fiscale. Se rieletto potrebbe quindi portare avanti questa politica, proponendo ulteriori tagli e modifiche delle regole. Tuttavia, la fattibilità di nuovi tagli fiscali importanti non potrebbe non dipendere da fattori quali il panorama politico, i vincoli di bilancio, le priorità del Congresso e dal partito che controlla la Camera dei Rappresentanti e il Senato. Credo che vedremmo quindi un diverso tipo di approccio alle entrate del governo, in particolare attraverso tagli alle tasse e con riferimento alla teoria economica di Arthur Laffer e alla sua “curva”, che mette in relazione l’aliquota d’imposta con le entrate fiscali, già all’origine delle politiche economiche di Ronald Reagan”.

Quali altre conseguenze vedrebbe con un’elezione di Trump?

“Il populismo di Trump è una variante dell’autoritarismo di destra. È affascinato dai cosiddetti uomini forti che non hanno molta tolleranza per le istituzioni democratiche, la libera stampa, i diritti umani e altre libertà civili fondamentali come il giornalismo indipendente. Ridicolizza inoltre chiunque “rompa” con il vangelo dei suoi veri credenti e può rovinare carriere politiche, ma anche lavorative. Ha incitato le rivolte del 6 gennaio, oltre ad aver tentato di rovesciare la Costituzione che aveva giurato di difendere. È poi il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a dover affrontare accuse penali; ha quasi 100 capi d’accusa che vanno dalla frode, alla violenza sessuale, al denaro nascosto, all’ostruzione della giustizia, all’occultamento di documenti riservati, alla sovversione elettorale e all’incitamento all’insurrezione e quasi certamente sto dimenticando qualcosa. Se perde, probabilmente non accetterà il verdetto, affermando nuovamente che è truccato con le possibili implicazioni sui suoi fedeli del gruppo MAGA. A mio avviso, si tratta di una situazione molto pericolosa, ancor più in caso di elezione e nel suo ruolo di comandante in capo, dove sarebbe il leader del cosiddetto ‘mondo libero’ con al suo comando il più grande complesso militare e industriale del mondo. Vista la sua storia e quanto sta emergendo dalle indagini penali, considerando che l’essenza della leadership è la fiducia, la domanda da porci è: possiamo fidarci di Trump? Non tocca a me rispondere, sollevo la domanda e la lascio lì per i lettori”. 

Donald Trump a processo

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Concludendo, spostiamoci sulla politica estera, a cui si è accennato in alcune delle precedenti risposte: che ruolo pensa che possa avere la questione israelo-palestinese nel voto? Le maggiori pressioni e critiche su Netanyahu dell’amministrazione Biden sono un segnale in questo senso?

“La situazione a Gaza, in particolare, è una sfida significativa per Biden, e solo di recente ha fatto pressioni su Netanyahu per un cessate il fuoco. Ma allo stesso tempo, una mano forniamo aiuti alimentari e questo genere di cose, mentre con l’altra continuiamo a fornire assistenza militare a Israele. Ma quando si guarda ai numeri, con oltre 33’000 palestinesi uccisi, tra cui circa 12’000 bambini – cifra che non include i bambini che hanno perso gli arti o i dispersi - siamo davanti a una situazione tragica. Una situazione che ha colpito profondamente i cittadini di tutto il mondo, che continuano a mobilitarsi e a manifestare contro la guerra nelle città, nelle fabbriche dei fornitori della Difesa come Lockheed Martin e sempre più spesso nelle università. E questo nonostante la copertura dei media tradizionali è limitata e “filtrata”. Di fronte a queste pressioni, Biden come detto si è infine espresso a favore di un cessate il fuoco, pur continuando a fornire ingenti fondi a Israele. Scelte che mineranno senza dubbio il suo sostegno tra molti dei suoi elettori, tra cui la popolazione araba statunitense e tutti coloro che sostengono le azioni umanitarie di base. Di conseguenza l’aumento delle pressioni e delle critiche nei confronti di Netanyahu da parte dell’amministrazione Biden potrebbe riflettere il desiderio di spingere il processo di pace e di affrontare questioni come l’espansione degli insediamenti e le preoccupazioni relative ai diritti umani”.

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Dall’Europa spesso non è facile comprendere il peso reale, in particolare in riferimento a un’elezione presidenziale ma non solo, del sostegno e del voto ebraico negli Stati Uniti…può aiutarci? 

“Gli ebrei americani costituiscono un piccolo ma influente segmento della popolazione statunitense e il loro sostegno e comportamento di voto possono avere un certo impatto sulle elezioni presidenziali, in particolare negli Stati chiave come ad esempio la Pennsylvania. Sebbene gli elettori ebrei abbiano opinioni politiche diverse, il sostegno a Israele è spesso una questione importante per molti ebrei americani. Va però anche detto che ci sono molti elettori ebrei che sono insoddisfatti della politica di Netanyahu e sono pure molti quelli che stanno manifestando nelle città in solidarietà con la situazione palestinese. Questioni come la sovranità di Israele sulla Cisgiordania, compresi gli insediamenti, e lo spostamento della capitale a Gerusalemme hanno alienato davvero molti elettori americani, compresi tanti ebrei. Trump ha d’altro canto sempre appoggiato fortemente Israele e lo spostamento della capitale… In sostanza credo che la questione israelo-palestinese peserà molto sul voto e sarà interessante osservare come si evolverà la situazione”.

Un’ultima domanda: sempre pensando alla politica estera, al Medioriente, ma anche all’Ucraina, alla Russia e alla Cina, come crede che cambierebbe la politica estera con Trump presidente?

“Per quanto riguarda il Medioriente l’approccio di Trump è stato caratterizzato da un’attenzione particolare alla promozione degli interessi statunitensi attraverso relazioni bilaterali e diplomazia transazionale. In un secondo mandato, Trump potrebbe quindi continuare a dare priorità a iniziative come la mediazione di accordi di pace tra Israele e gli Stati arabi, mantenendo una posizione dura nei confronti dell’Iran, in particolare per quanto riguarda il suo programma nucleare e le sue attività regionali. Sulla Russia Trump ha espresso il desiderio di migliorare le relazioni con il Cremlino, ma le politiche della sua passata amministrazione sono state caratterizzate da un mix di cooperazione e scontro. Trump potrebbe quindi continuare a impegnarsi con la Russia su questioni di interesse reciproco, come il controllo degli armamenti e l’antiterrorismo, mantenendo al contempo la pressione sulle aree di disaccordo, come l’annessione della Crimea, la guerra in Ucraina e le passate interferenze nelle elezioni statunitensi. Con la Cina probabilmente manterrebbe la posizione più conflittuale adottata in precedenza, in particolare sulle questioni commerciali ed economiche, ma senza dimenticare la competizione geopolitica e i problemi di sicurezza, come le tensioni nel Mar Cinese Meridionale e le questioni relative ai diritti umani. Nel complesso, la politica estera di un secondo mandato di Trump continuerebbe probabilmente a riflettere il suo approccio “America First”, caratterizzato dall’attenzione alla promozione degli interessi statunitensi, dalla priorità alle relazioni bilaterali e dal perseguimento di un mix di cooperazione e confronto con altri Paesi”. 

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